La leggenda del Rusì
Informazioni
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Datazione
Origine sconosciuta.
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In breve
Tra le storie tramandate oralmente in ValSeriana c’è quella detta “La leggenda del Rusì”, che ha come protagonista un uomo di Gromo, così chiamato per via dei suoi capelli rossi.
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Storia e descrizione
Il giovane era piccolo di statura, tarchiato, molto forte. L’essere piccolo e forte lo rendeva anche agile e capace di infilarsi ovunque, poteva passare anche attraverso fessure di piccole dimensioni. Si diceva che fosse invulnerabile: era successo che delle guardie gli avessero sparato, ma senza mai riuscire a fargli del male.
In origine, il Rusì abitava in una casa di archi di pietra, nella parte soleggiata del paese: i sotterranei di questa casa erano collegati con le tante gallerie sotto il paese, alcune addirittura scavate sotto il corso del fiume Serio.
Rusì era forte, agile e gran camminatore. Aveva una grande passione per l’uva; verso la fine di settembre saliva al passo di Portula, valicava il Venina e scendeva in Valtellina per saccheggiare i vigneti. Saliva con un grande canestro vuoto. In testa, dicono i racconti, portava “un cappello a cocuzzolo basso ed emisferico e a tesa ben larga di que’ che si usano Bergamo e dicono di Carinzia”. Al mattino del giorno dopo era già di ritorno a Gromo con il cesto pieno di uva.
Era un furfante il Rusì. Fingeva di aiutare i pastori a rastrellare, per recuperare lo strame (le foglie secche), che poi portava a Gromo. Ma talvolta una pecora scompariva e allora il Rusì aiutava il pastore nella ricerca dell’animale smarrito, che lui stesso, in realtà, aveva ucciso e nascosto. Era un “rapimento” che veniva ripetuto quando a settembre greggi e mandrie discendevano dai pascoli e attraversavano Gromo dirette verso la pianura. Allora il brigante si appostava e guardava pensoso il passare degli animali, non tanto per una sorta di malinconia davanti al morire della bella stagione, quanto perché scrutando cercava il momento giusto per afferrare una pecora e portarsela nel suo rifugio.
Il paese sopportò le scorribande del brigante, fino a quando arrivò un settembre in cui, guardando le greggi e le mandrie che passavano in paese, vide la figlia di un pastore, giovane e bella, florida e bionda, dalla pelle color dell’oro, che tornava a valle dopo i tre mesi trascorsi in montagna.
Il Rusì perse la trebisonda, con la sua proverbiale abilità, entrò in azione, rapì la ragazza, la rinchiuse in quei sotterranei che egli ben conosceva. La ragazza giacque là, terrorizzata e pregò la Madonna di Ardesio e promise a Maria la regina delle sue mucche in cambio della liberazione. La ragazza era figlia di mandriani, non era persona da darsi per vinta e non rimase ferma in quelle tenebre, camminò nei cunicoli alla cieca, tastando con le mani il terreno, in piedi o carponi e infine le parve di udire un rombo tra quelle pareti di roccia nera: camminò in direzione del suono e d’improvviso vide un chiarore davanti a sé… emerse all’aperto e si mise a correre e poi cadde e si rialzò e continuò a correre nel bosco fino a quando arrivò al ponte delle Rasghe, verso Ardesio, proprio dove si trovavano le sue mucche. Allora avvenne un fatto straordinario, la regina della mandria si incamminò verso di lei e si inginocchiò davanti alla sua giovane padrona. La ragazza raccontò tutto, il padre si rivolse agli armigeri, la ragazza spiegò che nel covo del Rusì aveva visto la corazza di acciaio che gli proteggeva il torace dalle pallottole degli schioppi e disse che per ucciderlo erano necessarie pallottole d’oro.
E così avvenne: il Rusì fu individuato e assalito, fece per fuggire al suo solito modo, con forza e agilità, ma stavolta le pallottole d’oro gli crivellarono la corazza e il brigante non ebbe scampo. Fu sepolto di notte sulle balze del Cornalta, vicino ai nidi delle aquile, un luogo dove non giunge mai il rintocco delle sacre campane.
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Enti e associazioni impegnate nella tutela e valorizzazione
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