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La passione per la storia locale, da sempre

di Paolo Aresi

Giampiero Valoti è un grande esperto della cultura di Nembro e della Val Seriana, della sua memoria, nel senso più ampio, dal mondo contadino a quello operaio, dalla società del Cinquecento a quella di oggi.

Giampiero Valoti è un insegnante in pensione, ha 74 anni, abita in paese.

La passione per la storia lo accompagna da sempre.

Che cosa impariamo dal passato? “L’importanza di un rapporto in armonia con la natura, garante della nostra serenità”.

Lei è nato nel 1949, quando ha cominciato a insegnare?

“Nel 1969, prima alle elementari, avevo una pluriclasse a Monte di Nese, bambini di terza, quarta, quinta elementare insieme. Grande esperienza. Poi mi sono laureato e sono passato alle medie”.

Lei ha cominciato a interessarsi di pietre coti, di quello che significavano per Pradalunga e per Nembro.

“Sì, avevamo fatto un libro nel 1990 che si intitolava “Nember, long e picadùr”, lo avevo fatto insieme a Giovanni Bergamelli e al gruppo In-contro. Era il risultato di una ricerca sul campo, a tappeto. Noi del gruppo In-contro facemmo più di 150 interviste di operai, contadini, impiegati… Volevamo verificare le condizioni di vita e di lavoro a Nembro, non soltanto per quanto riguardava le pietre coti, che pure davano lavoro a mille persone, da fine Ottocento all’inizio della Seconda guerra mondiale.”

Un periodo cruciale.

“Sì, a fine Ottocento nacquero le due grandi industrie tessili, la filatura di Benigno Crespi, che lavorò fino al 2007, e una tessitura della famiglia Blumer, di origine svizzera, imparentati con i Frizzoni, con i Curò. Esisteva una situazione sociale del tutto particolare, e figure di valore come Romano Cochi, sindacalista che abitava ad Alzano, don Garbelli, parroco in borgo Santa Caterina a Bergamo e membro dell’Ufficio del lavoro della Diocesi con don Carminati. C’era una realtà sindacale forte nel cattolicesimo bergamasco. Poi con il fascismo le cose cambiarono, Don Garbelli si ritirò nel suo borgo e don Carminati venne mandato a Roma. Erano nella Lista dei Sovversivi che si trovava in prefettura e che oggi è conservata nell’Archivio Bergamasco. C’era tanto fermento in quella prima parte del Novecento a Bergamo. Ricordo la Società Umanitaria presieduta da Alessandro Valli, società laica “Per il sollievo dei diseredati”.”

La Bergamo e la Nembro di oggi nascono da quel tempo.

“Sì, certo. Come dicevo, a Nembro a fine Ottocento si insediano le prime industrie. E la Bergamo moderna prende forma in quel periodo con il tracciamento delle vie Camozzi e Paleocapa, con la nascita dell’Eco di Bergamo, con l’opera di Niccolò Rezzara che promuove le casse rurali e una serie di altre iniziative per i ceti più umili. Alessandro Valli e Niccolò Rezzara stavano su versanti opposti, laico e massone il primo, cattolico il secondo, ma si stimavano profondamente. Valli era il direttore commerciale della giovane Italcementi, molto amico dei fratelli Pesenti. Rezzara era un insegnante vicentino che si era spostato a Bergamo da giovane. Due apostoli del progresso, potremmo dire. Valli volle essere sepolto avvolto soltanto da una tunica nera, come Giuseppe Mazzini”.

Lei ha scritto un libro su “Piante e animali del territorio bergamasco”. Che cosa ha scoperto?

“Sono sempre stato interessato al mondo del lavoro della valle, al suo evolversi. Mi ero già occupato del tema del mondo contadino con Mimmo Boninelli. Il cambiamento delle colture, i ritmi della vita, della giornata. Per esempio ricordo che i vitigni venivano piantati su pali di castagno, per un ettaro ci volevano mille pali. Ricordo l’importanza del baco da seta, caposaldo della nostra economia fino all’inizio del Novecento: la Bergamasca in quel tempo produceva ancora due milioni di chili di bozzoli, cioè duemila tonnellate. Tutta la famiglia era coinvolta nella coltura del gelso e nell’allevamento del baco da seta”.

Suo padre era mezzadro.

“Sì, per questo ho conosciuto la vita contadina degli anni Cinquanta, ultimo lembo di mondo antico che proveniva dal feudalesimo. La vita contadina era durissima, ma era anche fonte di una conoscenza profonda, di un rapporto in armonia con la natura, con la terra e con gli animali. Tutti gli animali avevano un nome, le famiglie avevano una o due vacche, un asino, talvolta un cavallo, avevano con loro un rapporto di lavoro, ma anche di un certo affetto. Ogni coltura ha una storia, per esempio quella della patata, che da noi venne introdotta a inizio Ottocento. La portò uno svizzero, un ex ufficiale di Napoleone, che si era ritirato a Selvino. All’inizio i contadini non volevano saperne, ma poi compresero che la patata era una manna. E poi ci sono tanti altri elementi di interesse. Per esempio Celestino Colleoni nel 1610 descriveva Alzano e il declivio detto  “Ol Frontal” tra Alzano e Sonno: lì si coltivavano gli olivi, coltura che poi venne persa e che ora si sta riprendendo sulle colline bergamasche, probabilmente anche a causa dei cambiamenti climatici. Fino al Seicento il cereale più importante era il miglio, poi soppiantato dal granoturco. L’uva isabella, o americana, venne importata perché resistente alla terribile fillossera…”.

È vero che eravamo la terra degli asini?

“Secondo le statistiche del Regno Lombardo Veneto, il Dipartimento del Serio a inizio Ottocento era l’area lombarda con il maggior numero di asini, è vero, erano resistenti, forti, costavano poco, beveva poco e mangiava senza troppe pretese.”

Lei è uno storico delle pietre coti.

“Avevo preparato un progetto per un museo delle pietre coti, attività di grande importanza in particolare per Pradalunga, ma anche per Nembro. Avevo individuato Casa Bonorandi e i laboratori attigui come sede perché erano in vendita. Nell’Ottocento e fino agli anni Sessanta del Novecento fu un’attività molto importante, poi arrivarono le motofalciatrici e misero in soffitta le pietre coti che erano eccezionali per affilare le lame. Ne parlava già quel naturalista eccezionale di Plinio il Vecchio, spiega che si bagnavano con acqua e che affilavano perfettamente il ferro. Se ne parla anche negli Statuti di Bergamo del XIV secolo, ci sono capitoli per proteggerle dalle imitazioni. Anche Maironi da Ponte ne parla a inizio Ottocento. Le pietre coti sono delle pietre di arenaria che contengono dei microscopici scheletri delle spugne marine, a forma di stella, che popolavano il mare del triassico, oltre duecento milioni di anni fa: questi microscopici scheletri sono estremamente abrasivi. Il “venarolo”, l’uomo che scavava seguendo “la vena” tagliava la montagna seguendo faglie acquifere. Quando emergeva dalla vena era un uomo di fango”.

Che cosa impariamo dal passato?

“L’importanza di un rapporto in armonia con la natura, garante della nostra serenità”.

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