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Eredità di comunità: un lavoro di memoria collettiva

di Lorenzo Migliorati

Fin dal suo nome, Eredità di comunità, è evidente che siamo di fronte a una scelta importante: le parole che adoperiamo per nominare le cose di questo progetto sono profonde, connotate e affatto neutre. Vorrei provare a soffermarmici sopra per tracciare qualche riflessione in relazione al metodo che sta guidando il lavoro di questa ricerca.

Tutto ciò vale, a maggior ragione, per le eredità simboliche e collettive come quelle di un patrimonio culturale immateriale. Si riceve, si trasforma e ce ne si appropria.

Eredità

La prima: eredità. Non sono certo che eravamo perfettamente consapevoli del suo significato quando l’abbiamo scelta per marcare il senso del lavoro che ci accingevamo ad intraprendere. Sì, perché ereditare è uno tra gli atti più significativi che ognuno di noi compie nella vita; e non soltanto per l’ammontare quantitativo delle cose che riceviamo. Qualche anno fa, Massimo Recalcati scriveva che «per ereditare qualche cosa dall’Altro, per essere davvero un erede, non è sufficiente ricevere passivamente un’eredità già costituita, ma è necessario un movimento soggettivo di ripresa, di soggettivazione del debito» (Recalcati, 2013: p. 121).

Ciò che l’autore voleva mettere in evidenza è che non si eredita per davvero qualche cosa, sia una casa, sia un patrimonio immateriale, se chi lo riceve non se ne appropria per davvero e non lo trasforma rispetto a ciò che era quando apparteneva al precedente depositario. Affinché la casa che fu di mio padre diventi per davvero mia, devo trasformarla, altrimenti resterà sempre la casa di mio padre e non sposterò neppure una sedia, mai.

Ereditare significa fare mio, sia nel senso della riconoscenza verso chi mi ha lasciato qualcosa, sia nel senso

della spoliazione simbolica di ciò che era prima per farne ciò che è ora. È un atto complesso, sofisticato, delicato e carico di significati.

Tutto ciò vale, a maggior ragione, per le eredità simboliche e collettive come quelle di un patrimonio culturale

immateriale. Si riceve, si trasforma e ce ne si appropria.

Solo in questo modo quel patrimonio sarà ancora attivo, significativo, vivo e vitale.

Le tradizioni, le storie, le parole, le usanze, i riti, i miti, tutto ciò che compone il patrimonio immateriale di quella strana formazione sociale che chiamiamo la nostra gente è appartenuto a qualcuno prima di noi. Per quei nostri antenati quelle cose erano la quotidianità, i modi di vivere – spesso di sopravvivere – le regole della loro esistenza. Il punto qua è: e per noi? Voglio dire: perché ravviviamo una tradizione, rinverdiamo

dei rituali o delle usanze che provengono da un passato quasi mitico tanto è lontano e “inutile” ai fini pratici oggi, per noi? Si risponderà: perché è importante non disperdere le tradizioni; perché sono le nostre radici; per non dimenticare; per un qualche altro motivo che ha a che fare con il dovere del ricordo. Epperò,

tutto ciò è opinabile.

Avrei gioco facile a rispondere; sì, ma perché è importante? E poi, mica si può ricordare e conservare tutto come in una specie di movimento nevrotico di accumulazione infinita, di eccesso di identificazione, di assorbimento passivo. Quante volte, infatti, ci diciamo che per andare avanti bisogna un po’ lasciar

perdere il passato? Lasà cor…

La banale ripetizione del passato è proprio il modo in cui l’atto dell’ereditare fallisce.

Comunità

Io credo che l’importanza e la vitalità che noi attribuiamo all’eredità del nostro patrimonio immateriale abbia

a che fare con la seconda parola del titolo: comunità.

Anche questa è una parola complessa. Ciò che noi designiamo abitualmente come comunità ci appare come un gruppo sociale omogeneo nel quale i legami tra le persone sono forti, solidi, in un certo senso “naturali”.

È il noi differente da loro, dove quel noi non deve neppure essere spiegato: è noto a tutti. Tuttavia, non è così semplice. Nelle comunità non è tutto latte, miele e relazioni semplici: quanto possono essere soffocanti le comunità?

Quanto fastidio può arrivare a darmi la gente del mio paese dove tutti sanno tutto di tutti? E allora, se cade il senso della sua bellezza, da che cosa sono tenuti assieme gli individui per fare comunità?

Nella parola “comunità” è implicato, come notava Roberto Esposito, il senso di un dovere, di una mancanza, un munus, appunto (dal latino: dono, ma anche debito): «il munus che la communitas condivide non è una proprietà o una appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare. E

dunque ciò che determinerà, che sta per divenire, che virtualmente già è, una mancanza» (Esposito, 2006: p. XIII).

Nella comunità, gli individui sono vincolati dalla necessità dell’altro per essere completi: stanno assieme perché da soli sarebbero meno di quel che sono quando sono uniti.

Non c’è molto di rassicurante in tutto questo; piuttosto, c’è un bisogno, una mancanza del singolo, una necessità.

Per questo, ce ne liberiamo non appena possiamo. La comunità, lungi dall’essere una scelta, è una sorta di obbligo di reciprocità con l’altro e di azione necessaria che ciascuno compie verso gli altri.

Mi scuso se mi sono dilungato su queste riflessioni piuttosto noiose, ma credo siano necessarie per comprendere il senso del percorso Eredità di comunità che, a questo punto dovrebbe essere più

chiaro. Esso è anzitutto un progetto attivo, collettivo e di memoria, il cui primo significato è quello di produrre coesione sociale e rinsaldare i legami tra di noi nel tentativo di rispondere alla domanda: chi siamo?

Ho detto memoria collettiva: spendo volentieri qualche riga su questa espressione per rafforzare l’idea che l’azione di ereditare il patrimonio immateriale delle nostre terre e dei nostri paesi è un’azione collettiva e una scelta politica forte. In fondo, se ci pensiamo bene, l’espressione “memoria collettiva” è una contraddizione in termini.

Ognuno di noi dispone di una facoltà propria, che risiede nella mente di ciascuno, che gli permette di ricordare qualche cosa del proprio e altrui passato (ad esempio, quel che ho fatto ieri). Come può una facoltà simile essere di natura collettiva? Cioè, come è possibile che noi ricordiamo il passato? Se ammettessimo che esiste un analogo del cervello individuale nella società, cioè che una totalità simbolica (la società) possieda una sorta di mente sociale in cui si depositano i ricordi del passato, cadremmo nella più banale delle fallacie, la reificazione della società. Non esiste un cervello sociale, al pari di come esiste il cervello di ciascuno di noi.

E dunque? Come è possibile la memoria collettiva? Siamo di fronte ad un ossimoro: o è memoria, cioè una facoltà soggettiva; oppure è collettiva, cioè un fenomeno sociale.

La contraddizione, tuttavia, è soltanto apparente perché l’ossimoro della memoria collettiva si regge su due paradossi di fondo.

Il primo: chi ricorda non ha a che fare con il passato, ma con se stesso che, nel presente, fa memoria del passato. La memoria, cioè, è una ricostruzione del passato operata nel presente e a partire dagli interessi attualmente dominanti, non una mera riemersione alla coscienza di immagini, più o meno fedeli, di quanto accaduto. Specialmente quando abbiamo a che fare con il passato dei gruppi sociali, con le nostre storie, ciò che chiamiamo memoria collettiva non è la semplice sommatoria dei ricordi individuali di ogni membro, ma una combinazione socialmente mediata di essi; una ricostruzione, appunto.

Il secondo paradosso riguarda il fatto che fare memoria è possibile soltanto se è data la possibilità del suo contrario, l’oblio. Non potremmo ricordare se non fossimo in grado di dimenticare; diversamente saremmo vittime del tragico destino di Funes, il Memorioso così magistralmente narrato da Jorge Luis Borges:

avremmo soltanto una marea montante di immagini disordinate del passato senza alcun senso.

La memoria, cioè, è una selezione del passato che scegliamo di ricordare, sulla base di ciò che riteniamo

importante oggi, nel presente, mentre lo facciamo. Se dovessi esprimermi con una sola frase, anche a rischio di semplificare eccessivamente, direi che ogni memoria collettiva è una scelta: noi, insieme, oggi, scegliamo di ricordare qualche passato perché riteniamo che sia importante per noi farlo; perché il passato parla al nostro presente e al nostro futuro.

Lungi dall’essere individuali, la ricostruzione e la selezione del passato da ricordare sono operazioni sociali, attività che svolgiamo, necessariamente, in accordo con altri membri del nostro gruppo sociale e nel tempo presente in cui insieme scegliamo di farlo.

Sono operazioni di memoria collettiva, appunto: «ogni memoria è un lavoro» (Bloch, 1997, p. 213).

E dunque, Eredità di comunità è un lavoro collettivo che richiede lo sforzo di tutti: degli imprenditori morali della cultura così come dei singoli cittadini; delle amministrazioni e dei corpi intermedi di associazione; delle vecchie e delle nuove generazioni.

Perché, ereditare una comunità è davvero il più collettivo e politico degli atti.

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